“Ci hanno fermati, ma non fermeranno la protesta”: la testimonianza di Paolo Naldini dalla Marcia per Gaza
Un partecipante alla Marcia per Gaza racconta la sua esperienza al Cairo, fra repressione, blocchi, solidarietà e nuove forme di protesta.

Sono arrivato al Cairo per partecipare alla Marcia per Gaza il 12 giugno. Ero una delle circa 4.000 persone che da 80 Paesi diversi sono confluite in Egitto per due obbiettivi. Il primo, dichiarato, premere affinché gli Israeliani aprissero i canali di intervento umanitario alimentare e sanitario a Rafah, che in parole più semplici si dovrebbe dire: convincere gli israeliani a fare arrivare alla popolazione che sta letteralmente morendo di fame e non ha quasi più medicine e medici, quegli aiuti che il mondo ha inviato alla Palestina.
Sembra incredibile, ma è questo che sta succedendo: un popolo di 2 milioni di persone sta morendo di fame perché un altro popolo lo sta sterminando giorno per giorno senza che possa difendersi e nemmeno scappare, perché sono imprigionati. L’altro obbiettivo era che l’opinione pubblica nel mondo si attivasse per fare sentire il proprio dissenso rispetto a questo genocidio legalizzato.
Il primo obbiettivo non è stato raggiunto e anzi Israele ha distrutto le reti di comunicazione digitale palestinese isolando completamente per due giorni la Striscia di Gaza dove i militari e i cecchini hanno continuato ad ammazzare la gente che fa la fila per ricevere cibo. Poi Israele ha persino attaccato con missili l’Iran. Il secondo obbiettivo forse in parte è stato raggiunto. E se scrivo questa lettera è perché vorrei, nel mio piccolo, continuare a contribuire a questo fine: che l’opinione pubblica, cioè tutti noi, prenda coscienza ed eserciti una qualche pressione per riorientare le posizioni assunte dai nostri rappresentanti.
Sono arrivato al Cairo giovedì. Gli organizzatori italiani ci avevano detto di confonderci come turisti, perché nonostante le richieste fatte al governo egiziano di autorizzare la marcia, non erano arrivate risposte. Alcuni di coloro che in quelle stesse ore atterravano sono stati fermati e alcuni pure rimpatriati. La maggior parte però ha superato i controlli e dall’aeroporto si è trasferita in città. Noi italiani siamo un centinaio. Nessuno di Biella, numerosi da Liguria, Trentino, Torino, Milano e Roma. Nel pomeriggio e nella notte ci sono stati blitz presso gli hotel dove era evidente che i partecipanti si fossero radunati.

Io stavo in un piccolo albergo dietro piazza Tahrir e nessun poliziotto si è mai fatto vivo, che io sappia, nei giorni della mia permanenza. Venerdì mattina siamo informati, tramite i canali social che abbiamo reinstallato dopo l’arrivo in città, che alle 12:00 ci verrà comunicato il luogo di assembramento da cui partirà il convoglio dei bus diretti alla volta di Al-Arish, cittadina sulla costa mediterranea del Sinai dove inizierà la effettiva marcia a piedi di oltre 50 chilometri fino a Rafah. Al-Arish, come tutto il Sinai, è zona militarizzata. I miei contatti nell’ambiente diplomatico dl Cairo mi avevano detto subito che, se mai il governo egiziano avesse autorizzato la marcia, nel Sinai non saremmo mai entrati.
Verso mezzogiorno, invece delle sospirate informazioni, cominciano ad arrivare messaggi preoccupati e preoccupanti che invitano a stare nascosti ed evitare di unirsi in gruppi. A metà pomeriggio i referenti della delegazione italiana ci dicono che la marcia non si fa, almeno per ora: manca l’autorizzazione del governo egiziano. Da parte della delegazione italiana e della maggioranza delle altre si è deciso di non mettere in pericolo i partecipanti con una manifestazione non autorizzata. Se temono per noi, non hanno tutti i torti: sabato incontrerò un’attivista iraniana che ha vissuto al Cairo la quale mi dirà che in Egitto la condanna per manifestazioni antigovernative è punita con 15 anni di carcere.
Intanto, venerdì pomeriggio e sera avvengono due fatti: il primo è che si moltiplicano i fermi di polizia e i rimpatri. Il secondo è che un gruppo di alcune centinaia di partecipanti, guidati dalla delegazione francese e da quella svizzera – a cui appartengono i primi promotori della Global Marh To Gaza – parte alla volta di Ismailya, una cittadina al confine nordoccidentale del Sinai a circa 2 ore di auto dal Cairo. Non ci arriveranno mai. Tre posti di blocco lungo la strada li fermano tutti. L’ultimo è dove si raccolgono almeno duecento partecipanti, siedono a terra e aspettano.
Aspettano. Aspettano finché verso sera, dopo che le autorità avevano ripetutamente intimato di tornare al Cairo e avevano preso le generalità di molti partecipanti – che in buona parte saranno nelle ore successive rimpatriati e iscritti alle liste delle persone non gradite –, alcuni agenti vestiti da beduini, sotto la protezione della polizia in tenuta antisommossa, si avventano con bastoni su alcuni partecipanti seduti.

I partecipanti non reagiscono e non riescono in nessun modo a difendere i malcapitati, scelti a caso dai picchiatori. Nei video si vede come tutti restino inermi e semmai pregano di smettere, non ci sono esperti di manifestazioni abituati alle cariche e alle violenze, si tratta di cittadini che in molti casi sono alla loro prima marcia. Alcuni vengono trasportati di peso sui bus che li porteranno all’aeroporto per essere rimpatriati.
Nella notte e nella giornata di sabato il gruppo si scioglie o viene sciolto. Intanto noi che siamo la maggioranza dei partecipanti restiamo in albergo o ci disperdiamo nel pullulare del Cairo con i suoi oltre 23 milioni di abitanti, oltre a chissà quanti turisti. Personalmente mi faccio curare presso un ospedale perché mentre rientravo la sera di giovedì un cane randagio mi ha morsicato; niente di grave, né particolarmente doloroso, ma il pericolo della rabbia va scongiurato. Troverò ispirazione per trarre una morale da questa vicenda riflettendo su questo segno: cani, rabbia, ospedali e vaccini, come pure la lapide su un muro che attrae il mio sguardo, Societé des Amis de l’Art.
Sabato continuano le comunicazioni attendiste e le delegazioni lavorano incessantemente con le autorità per ottenere autorizzazioni, ma il rifiuto è inflessibile. Evidentemente da parte del governo egiziano non si può tollerare manifestazioni di piazza, tanto più dopo la primavera araba del 2011. Molti si indignano. A me pare comprensibile, ancorché un’occasione perduta a discapito della popolazione palestinese. E dell’umanità. Come mi pare comprensibile, all’opposto, che alcuni partecipanti siano disposti a farsi malmenare e segnalare sulle liste di indesiderati da parte della polizia egiziana perché in confronto allo sterminio in atto a Gaza queste conseguenze, pur molto sgradevoli, sono in realtà inezie.
Ricevo un video di un ragazzo da Gaza. Mi si stringe il cuore a leggere che lui dice a me di non rattristarmi
Io non sono tra loro. Ma non giudico nessuno. Decido di rientrare in Italia. Domenica prendo il volo per Malpensa. Sempre atteggiandomi a turista. Nessuno mi ferma. Rientro con lo spirito offuscato dal senso di impotenza, ma anche con la consapevolezza che a chi mi chiederà che cosa abbia fatto quando gli israeliani sterminavano i palestinesi risponderò: nulla, forse una piccola, quasi insignificante cosa l’ho fatta, sono andato al Cairo per partecipare alla marcia per Gaza. Non ha fermato il genocidio. Ma mi ha permesso di esprimere ciò che sentivo: io non sono complice di questo sterminio. Anzi, vi prego, fermatevi.
Intanto l’esercito israeliano a Rafah fa disporre la gente in fila per la distribuzione degli alimenti e poi spara per ucciderne ottanta, novanta al giorno. Gente inerme, in fila, stremata, disposta a rischiare la vita in questo modo nella speranza di portare a casa – per così dire “casa” – qualcosa da mettere nelle pance vuote dei sopravvissuti.
Ora, rientrato in Italia ricevo un video di un ragazzo da Gaza, lo trovate a questo link. Mi si stringe il cuore a leggere che lui dice a me di non rattristarmi… la potenza di questa semplice lezione di umanità credo mi accompagnerà a lungo. La Global March To Gaza non si arresta. Dal Cairo avevo proposto ai miei compagni di gruppo nord italia un motto: “fermata una marcia, se ne fa un’altra”.
E così avviene: dal 21 al 27 a Bruxelles una grande marcia è organizzata. Propongo al mio gruppo che in tante città e località del mondo si organizzino staffette, marce di alcune decine di chilometri che segnino aree del pianeta con un filo che, se unito, possa cingere il mondo intero e unire tutti al popolo palestinese. Io ho fiducia nei nostri rappresentanti politici e penso che la responsabilità di noi cittadini sia di far comprendere loro quali siano i nostri sentimenti. Sta a loro poi interpretarli e tradurli in azione politica. Ma se tacciamo e restiamo inerti, che cosa possono fare? Aiutiamoli a rappresentare chi siamo davvero.
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